Giuliano Briganti

Pietro Testa

Lucca 1612 – Roma 1650

Venere e Adone
Penna e inchiostro bruno su carta, mm 275x420
in basso a sinistra, scritta di collezione Testa

Bibliografia: Elizabeth Cropper, Pietro Testa 1612-1650. Catalogo della mostra (Philadelphia Museum of Art, 5 novembre-31 dicembre 1988), Aldershot 1988, p. 34, nota 2.

“Diedesi ad intagliare all’acquaforte, ed avendo dipinte alcune istoriette di copiose, e ricche invenzioni, intagliò quella di Adone, e Venere con un gentile scherzo di vaghi puttini”.
Così Giambattista Passeri dà conto degli esordi di Pietro Testa nella tecnica dell’acquaforte, strettamente legati, secondo il biografo, a quell’esigua ma non per questo secondaria produzione di “poesie” di ispirazione ovidiana che gli studi moderni situano concordemente intorno alla metà degli anni Trenta, in stretta sebbene non immediata contiguità con gli analoghi soggetti dipinti da Nicolas Poussin verso la fine del terzo decennio del secolo.
Per quel che riguarda la storia di Adone specificamente ricordata dal biografo romano, possiamo far riferimento al dipinto di Pietro Testa conservato alla Akademie der bildenden Kunste di Vienna, all’incisione che con alcune varianti lo riproduce, e ai disegni relativi a entrambi (per cui si veda Pietro Testa 1612-1650. Prints and Drawings. Catalogo della mostra a cura di Elizabeth Cropper, Philadelphia Museum of Art, 1988, pp. 27- 36, nn. 15-17; più recentemente Pietro Testa e la nemica fortuna. Un artista filosofo tra Lucca e Roma. A cura di Giulia Fusconi con Angiola Canevari, Roma 2014, pp. 181-186).
Esaminando nella probabile sequenza i disegni preparatori al dipinto e quelli per l’incisione, tutti agli Uffizi, e infine la stampa dedicata a Sebastiano Antinori da Nicolò Menghini, verosimilmente primo proprietario della tela oggi a Vienna, vediamo che tutti si riferiscono al breve momento felice degli amori di Venere e Adone, che l’artista lucchese situa in un ampio paesaggio boscoso e commenta grazie alla presenza degli amorini che accompagnano la dea, dei cani da caccia e delle prede uccise dal cacciatore, inconsapevole della sua prossima fine.

Privo di relazione specifica con la serie qui ricordata il nostro disegno propone invece la conclusione di quell’episodio. Testa ha infatti raffigurato l’istante in cui la dea, avvertita da un sogno, scopre il giovane mortalmente ferito presso un ruscello e può solo piangere, impotente, la sua morte prematura: un momento narrato nel Canto XVIII dell’Adone di Giovan Battista Marino, il poema che si sviluppa intorno al nucleo centrale narrato da Ovidio nel decimo libro delle Metamorfosi.
Sebbene posto all’Indice nel 1627 per volere del pontificato barberiniano l’Adone, pubblicato per la prima volta a Parigi nel 1623 e in Italia nel 1625, è generalmente riconosciuto dagli studi moderni come inesauribile fonte per le mitologie della pittura seicentesca, e in particolare per le “poesie” di Poussin e di Pietro Testa. Anche Poussin, infatti, dipinse la Morte di Adone nella tela nel Musée des Beaux Arts di Caen, dopo averne raffigurato la nascita in un disegno ora a Windsor (inv. 11933).
Nel citare il dipinto francese Elizabeth Cropper fa menzione, senza tuttavia illustrarlo, di un disegno di Pietro Testa per lo stesso episodio conservato in una collezione romana: sebbene non ne sia citato il proprietario ritengo che si tratti del nostro foglio, peraltro di uguali dimensioni, anche perché la studiosa conosceva Giuliano Briganti.

Non si conoscono, per il momento, dipinti corrispondenti al nostro disegno, né il foglio sembra essere preparatorio per un’incisione nota. E’ inevitabile tuttavia che il fitto tratteggio parallelo e occasionalmente incrociato che tornisce i volumi e segna le ombre, addensandosi in primo piano quasi a suggerire una pozza di sangue, ricordi per l’appunto la tecnica dell’acquaforte nella quale Pietro Testa incontestabilmente eccelse, sia che si trattasse di una libera inclinazione oppure di una scelta di ripiego, come fa intendere il Passeri.
Anche da un punto di vista strettamente stilistico, il foglio qui esaminato sembra accostarsi a quelli che precedono, sia pure di poco, le carte già menzionate dedicate all’Adone: mi riferisco alle due versioni del cosiddetto Giardino della Carità, che in diverso formato danno conto delle riflessioni del pittore lucchese sui capolavori tizianeschi e in particolare sul cosiddetto Omaggio a Venere, culminate nell’acquaforte nota come il Giardino di Venere (Pietro Testa… 2014, pp. 169-173), e ancora ai disegni per la favola ovidiana dedicata a Narciso (Parigi, Louvre, inv. 1890; Edimburgo, The National Gallery of Scotland, D 4991).
Strettamente confrontabili sono infatti i segni replicati e decisi che circoscrivono i protagonisti e il loro ambiente: diversi, in ogni caso, dai contorni sinuosi che, meglio di qualunque aggettivo, restituiscono nei fogli degli Uffizi la sensualità senza tempo degli amori di Venere e Adone narrati dal Cavalier Marino. Motivi, tutti, che suggeriscono per il nostro disegno una data nella prima metà degli anni Trenta e lasciano intuire un progetto di incisione non realizzato.


Ludovica Trezzani
Aprile 2015